Carne da macello

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Ho atteso qualche giorno, non avevo voglia di scrivere dell’assassinio di Rebellin.

Lo faccio oggi, con toni crudi forse, ma cruda è la realtà, io sono solo il cronista.

Ormai conosciamo la dinamica, il nome di chi lo ha investito, si è fermato, ha compreso l’atrocità commessa, è scappato a casa sua dove l’omicidio stradale non esiste come reato. E sappiamo che è stato emesso un mandato di arresto europeo, che semplifica l’estradizione.

Questa morte, questo ennesimo assassinio, mi ha colpito; come ha fatto con tutti noi pedalatori.

Di fatto mi unisce con Rebellin (quasi) l’età, si può dire che lo vedo in sella da quando ero ragazzo. Una presenza costante.

La stampa non di settore ha rimarcato come fosse ironia della sorte il fatto che l’incidente sia avvenuto dopo aver smesso la carriera agonistica.

E’ il contrario, finché quello è il tuo lavoro ti alleni e gareggi in relativa sicurezza.

Proprio l’essere diventato un ciclista normale, un appassionato come noi, ha segnato il suo destino.

Solo nei primi dieci mesi di quest’anno le statistiche hanno registrato 123 ciclisti uccisi sulla strada. Una stima per difetto, non tiene conto delle morti avvenute a giorni di distanza dall’incidente. Una metodologia di calcolo usata da decenni e che andrebbe rivista.

Rebellin diventerà un altro numero, come il piccolo Luca, investito da un tram mentre andava a scuola in bici.

O Antonio, pensionato ucciso mentre pedalava per andare a fare la spesa.

O Luisa, che rincasava dal lavoro sulla sua e-bike.

E come tanti altri, nomi, storie, sogni e ricordi: non numeri.

La loro unica colpa trovarsi per strada in sella ad una bici.

Il giorno dopo la morte di Rebellin mi sono svegliato col sole, ne ho profittato per uscire con la Checkpoint in prova, montata per questa verifica in assetto touring con borse avanti e dietro.

Aria tersa, temperatura gradevole, panorama che non mi stanca mai, una bici eccezionale, tutti gli ingredienti per passare una bella mattinata.

Invece no, ho pedalato per dovere, perché voglio rimandare la bici in azienda una volta tanto rispettando i tempi, perché se non controllo ogni dettaglio non pubblico: ma a ogni chilometro aumentava solo la voglia di tornare a casa.

Al sicuro.

E’ diverso tempo che “soffro” di una certa apprensione ogni volta che esco in bici. C’è una data, quella dell’incidente che subì alla fine del lockdown, alla prima uscita in bici dopo mesi. Un’automobilista distratta mi venne addosso mentre faceva manovra, a pochi chilometri da casa mia. Accuso ancora i postumi, il braccio destro continua a darmi fastidio.

Ma più che l’handicap fisico il colpo duro fu alla mente: mi resi conto che sarebbe bastato poco, per esempio se fosse uscita dal parcheggio di muso e non di retromarcia e poco più veloce e ora non sarei qui. O che in quel momento, mentre volavo in aria per atterrare stordito sull’asfalto, avessi avuto un altro veicolo alle spalle che mi avrebbe per forza investito. 

Di cadute ne ho prese in bici, soprattutto durante i test gravel. Scivolate, la radice non vista, il ramo sporgente, l’errore mio di guida. Ma lì è diverso, sono in un bosco sperduto, il massimo che può capitarmi è incontrare il cinghiale, quando non sono io a fare tutto da solo cappottandomi con poca gloria. E lontano da occhi indiscreti.

Però su strada, nel traffico, è diverso. Riuscire non dico a godersi la bici ma anche solo mantenere la concentrazione per svolgere un test è diventato impossibile.

Ho da un paio di mesi in prova un manubrio gravel, il Redshift nella sua versione con il loop, quell’archetto anteriore che ha tanti usi. Tra cui dare sollievo alle braccia, impugnandolo come fosse una prolunga da crono. Con la mani giocoforza lontane dalle leve.

Quattro uscite di prova vanificate dalle condizioni apocalittiche del traffico, nemmeno un chilometro è stato possibile pedalare con le mani sul loop conservando una certa sicurezza.

Alla fine, per disperazione, ho caricato la bici in auto, raggiunto il campo base dei test ossia il mio rifugio estivo, e tra i viottoli di campagna ho potuto trovare la tranquillità che cercavo.

Sono tanti anni che pedalo, con ogni stagione e ogni condizione.

Mai come in questi ultimi due anni avverto la stanchezza. Non è solo l’età che avanza, gli acciacchi, gli impegni: è lo stress, ogni uscita non sai mai se tornerai a casa.

La morte di Rebellin, come quella di Scarponi, ha suscitato clamore, ampia copertura sulla stampa e pure una inusitata celerità investigativa, spiegata dalla notorietà del personaggio. E’ normale, la comunicazione ha le sue regole e se buttano giù me manco due righe nella cronaca locale.

Però è sbagliato. I regimi hanno sempre usato la censura per assopire le coscienze su un problema reale. Vuoi mostrare che la criminalità è debellata? Stop alla pubblicazione di notizie di omicidi e rapine.

Avvengono uguale però la gente non ne ha percezione.

Ed ecco cosa manca, tra l’altro, sulla grande piaga delle morti stradali: la percezione che sia, anzi, che è una strage. Di pedoni e ciclisti soprattutto, le due categorie definite più deboli.

La bici è esplosa negli ultimi anni, tanti che a pedalare non ci pensavano proprio con l’ebike hanno scoperto come è più bello e pratico spostarsi su due ruote. 

Di pari passo ci si attendeva una politica di investimenti in infrastrutture, per favorire e rendere sicura una mobilità da cui tutti traggono vantaggio, anche quelli che si ostinano all’auto pure per pochi metri in città. Non inutili e populistici bonus.

Qualcosa c’è stato poi, è notizia di adesso, una netta retromarcia. Con l’attuale ministro delle infrastrutture, competente per materia ma non della materia, che ha azzerato 94 milioni di euro destinati in due anni proprio alla costruzione di ciclabili e infrastrutture dedicate.

Non mi sorprende, sono anni che metto in guardia da quei partiti che nutrono per la bici un vero e proprio astio. Stupisce vedere pedalatori che li votano.

E allora cosa ci resta?

Quello che già scrissi tempo fa: noi stessi.

Noi a smettere di parlarci addosso, tanto sono cose che ogni ciclista sa già.

Noi a farci portavoce verso gli altri, noi a convincere, spiegare, illustrare, raccontare a chiunque si trovi alla nostra portata cosa significa pedalare.

Non la sua bellezza, il suo fascino, il gusto della fatica.

No: dobbiamo raccontare la sua pericolosità.

Dobbiamo fargli capire che quando ci sfiorano il gomito superandoci ad alta velocità è quasi un tentato omicidio.

Dobbiamo fargli capire che rallentare pochi secondi perché ci siamo noi davanti non è una perdita di tempo; e non rischia di far perdere la vita a noi.

Dobbiamo fargli capire che non siamo degli invasati fondamentalisti, che in auto e moto ci andiamo anche noi quando non pedaliamo. Spiegargli come ci comportiamo quando ci spostiamo a motore e incontriamo un ciclista. Che rallentiamo, mettiamo la freccia, ci teniamo a distanza di sicurezza e così via. Fargli una vera e propria scuola guida insomma.  

Perché possiamo invocare quel famoso metro e mezzo di distanza quanto vogliamo, ma poi sappiamo che nessuno controllerà.

Perché siamo stanchi di essere carne da macello e possiamo ribellarci. Dobbiamo ribellarci.

Buone pedalate.

COMMENTS

  • <cite class="fn">Alberto</cite>

    Caro Fabio,
    ogni volta che esco in bici ho timore; non basta il radar sotto sella e l’attenzione guardinga ad ogni vicolo che si immette sulla strada principale, a ogni veicolo che intravedo: tutte le precauzioni non mi rassicurano e purtroppo le esperienze di scampato pericolo confermano questo mio stato d’animo. Molti gruppi di ciclisti “estremi” con il loro comportamento non fanno che peggiorare il problema; la ribellione non serve quando moltissimi guidatori circolano con il telefono all’orecchio e professano un dichiarato disprezzo per il ciclista (dichiarazioni ascoltate personalmente).
    Dobbiamo tutelarci scegliendo attentamente le strade, uscendo di domenica illuminati come alberi di natale, pedalando come se si fosse su un campo minato: la realtà è questa, non rimane molto altro da constatare. Andremo per sentieri di campagna, stando pure attentissimi ai giganteschi trattori che circolano. altre scelte non ne abbiamo.
    Buone pedalate sicure a tutti

  • <cite class="fn">Marcello</cite>

    Ciao Fabio, condivido tutto ciò che hai scritto! Ho iniziato a pedalare nel 2015, vado principalmente in fuoristrada, soprattutto boschi e in montagna. Nonostanti abiti in provincia, in campagna, cerco sempre di andare su stradine poco trafficate quando devo fare asfalto. Ultimamente ho venduto la bdc che usavo pochissimo per passare ad una gravel anche per questo motivo….automobilisti troppo distratti e incuranti del codice della strada.
    Un saluto e buone pedalate.

  • <cite class="fn">Andrea c.</cite>

    Sono cose che non si possono comunicare a parole, bisogna provarlo sulla propria pelle cosa significa essere superati a una manciata di centimetri di distanza, magari mentre stai arrancando su una salita a doppia cifra, o mentre ti trovi su una strada piena di buche. Per prendere la patente B dovrebbe essere obbligatorio anche fare un certo numero di ore di pratica in bicicletta e in moto/ciclomotore in mezzo al traffico!

  • <cite class="fn">Luca</cite>

    Premetto che non sono provocatorio nel porre la domanda: ribellarci in che modo?
    Non ho proprio idea di quale potrebbe essere l’atto ri ribellione che possa condurci a qualcosa di vantaggioso.

    Servirebbe che la politica, tutta, almeno su questo argomento, sia concorde sull’importanza strategica degli investimenti per la mobilità cosiddetta dolce. Perché sono dati oggettivi quelli relativi ai netti vantaggi che portano questo genere di investimenti, non solo per gli utenti della strada più fragili come i ciclisti, ma per l’intero sistema sociale: città più vivibili, aria più pulita, spostamenti più veloci, anche per chi è obbligato ad utilizzare l’auto, turismo, ecc.
    Ma il nostro Governo viaggia nel senso opposto di quello del resto dell’Europa, tagliando il fondo di 94milioni che poteva essere destinato a investimenti in questo senso…

    Servirebbe che parlare di sicurezza stradale, come nello specifico di ciclismo, non rimanga prerogativa di ecologisti o appassionati di sport: io credo servirebbe un confronto intelligente e costruttivo con chi non comprende appunto quello che dici anche tu, ossia che noi ciclisti non siamo degli invasati fondamentalisti su due ruote come pensano.

    I tempi sono sicuramente cambiati: dell’argomento se ne parla di più, ma spesso nel modo scorretto. Certamente bisognerebbe porre fine a una certa retorica giornalistica, che porta a confondere le parti di vittima, che subisce la violenza, e di carnefice, che la attua, quando si parla di violenza stradale, come quando si parla di molti altri generi di violenza.
    Infatti, i giorni seguenti la morte di Rebellin, il Corriere è riuscito a pubblicare un articolo che parlava dei troppi ciclisti per strada senza luci, come se fosse l’argomento prioritario di cui parlare alla dipartita del ciclista… Non parlava di niente di più che di quello e il giornalista si era spinto ad affermare addirittura che degli automobilisti distratti al telefono ce ne sarebbe potuti occupare più tardi, non prima comunque dei comportamenti indisciplinati dei ciclisti, facendo così del becero benaltrismo.
    Anche le semplici parole usate per discutere dell’argomento sono sbagliate: i giornali parlano di automobili killer o addirittura impazzite, invece che di automobilisti che commettono gravi errori.

    Quindi il cambiamento in cui speriamo noi ciclisti credo che dovrà necessariamente passare da quello culturale. Cambiamento attuabile con l’istruzione e il fatto che per strada saremo sempre di più e che dovremo fare in modo di farci vedere sempre di più, non solo con le luci la sera, ma appropriandoci di porzioni di strada sempre più grandi che ci spettano per diritto.
    La ribellione, come atto violento e di rifiuto all’obbedienza, credo servirà a poco invece; se non quando consiste in atti di protesta come quelli che si son verificati in diverse grandi città italiane, come ieri in viale Buenos Aires a Milano, dove è stato occupata l’intera pista ciclabile, sempre troppo spesso occupata da auto parcheggiate, da un cordone di ciclisti durante un flash mob.
    Atto che rende sì visibili, ma che a poco serve se poi su un giornale di tiratura nazionale aizzano chi non ha un’opinione ad averne una in contrasto a quella che una pista ciclabile è necessaria, magari perché si potrebbero creare parcheggi che mancano in città come Milano (senza interrogarsi sul motivo reale del perché manchino).

    Ho paura che noi ciclisti, soprattutto urbani, di quest’epoca, saremo dei poveri martiri…

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